Cesare Romiti ha segnato la storia del Paese più volte. Vi ha impresso un suo sigillo personale. Lo ha fatto con la durezza del manager determinato, coraggioso, spregiudicato se necessario, ma anche con il tratto gentile di un uomo aperto, curioso, che non aveva mai accettato l’idea di poter invecchiare. Se n’è andato a 97 anni.
Romiti negli ultimi giorni era come una candela che si spegneva, dilatandosi. Era come se fosse tornato bambino, chiedendo della mamma e del papà. Lui che aveva fatto della sua imponenza fisica quasi la rappresentazione teatrale della managerialità, il marchio di una risolutezza rocciosa, non si piegava all’idea che le gambe non potessero più sorreggerlo, che il corpo non rispondesse più ai suoi comandi.
«Ormai, dovrebbe andare in giro appoggiandosi sempre a un bastone — diceva già qualche anno fa il figlio Maurizio — ma non lo accetterà mai, sai com’è fatto».
Cesare, il «Dottore» negli anni della Fiat, aveva una presenza statuaria che imprimeva di per sé soggezione. Lui era quello. Forte, duro. Ben piantato per terra. Con la generosa buonuscita della Fiat tentò di creare una sua dinastia industriale, portando a lavorare con sé i figli Maurizio e Piergiorgio. Non andò bene. Dovette lasciare Torino a 75 anni. Una scelta dolorosa. L’avvocato diceva che se anche la Chiesa, nella sua storia millenaria, si era data delle regole ferree sull’età, l’industria non poteva fare eccezioni. Romiti ebbe numerosi amici tra gli uomini di Chiesa. Ne coglieva il fascino (Gianfranco Ravasi e Carlo Maria Martini) ma confessava di non capirne le dinamiche di potere. Una volta, trovandosi in Polonia, chiese di vedere il primate. Il cardinale Wyszynski però non c’era. Gli dissero: «Se vuole incontrare il suo sostituto, un certo Wojtyla?». Romiti disse di no, non voleva perdere tempo. Non se lo perdonò mai.
(Sintesi redatta da: Linda Russo)