Secondo Francesco Stoppa, psicoanalista e docente del Pontificio Istituto teologico "Giovanni Paolo II", adolescenza e vecchiaia sono età di cambiamento, età di passaggio, età di solitudine. Sono età dunque più simili di quanto ci si potrebbe immaginare.
Sono infatti le epoche del cambiamento – del corpo, del proprio ruolo sociale, nella visione del mondo – in cui bisogna, in un caso, fare a meno dei comfort e delle certezze dell’infanzia e, nell’altro, ridimensionare la presunzione della propria centralità. La persona avverte un senso di solitudine: la sensazione per il giovane che il mondo adulto non possa comprendere quanto sia impervia l’arte di crescere e per l’anziano quel sentore di inutilità che accompagna la consegna del testimone.
Ma queste due età ci fanno comprendere come una società evolva solo nell’incontro/scontro tra il nuovo e l’antico, e come il periodico generarsi di crisi rappresenti il fattore primo di rivitalizzazione dell’eredità ricevuta. Oggi il prolungarsi dell’adolescenza intesa come stato di dipendenza dalla famiglia d’origine è tuttavia un fatto non del tutto riconducibile al dramma della disoccupazione giovanile. Esiste un problema d’ordine psicologico che complica il processo di separazione e che vede una corresponsabilità di entrambe le parti: a figli che stentano ad autorizzarsi in qualità di adulti corrispondono genitori che faticano a concepire il distacco.
I giovani dovrebbero uscire da una realtà a un tempo normativa e affettiva per prendere posto in un mondo nel quale, in conseguenza della crisi dei legami di comunità, il cinismo e l’individualismo sembrano sopravanzare le considerazioni e i valori di tipo etico. Ora, è chiaro che per riorientarci (e quindi anche per ridare dignità alla vecchiaia riconoscendo l’importanza della sua autorevolezza ai fini della trasmissione intergenerazionale) non abbiamo altra strada che riaprire i confini del nostro io, chiamare in causa la collettività e ridare fiato ad esperienze di comunità, da sempre spazio di analisi critica e di dialogo tra le persone e le generazioni.
Il dipinto “Le tre età dell’uomo” di Giorgione che mostra tre figure, due, il giovane e l’adulto, impegnate nello studio di uno spartito e una terza, un anziano, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, rappresenta la vecchiaia come paradigma di un’esistenza che non deve attenersi a un copione già scritto e che interroga se stessa sulla sua operosità. Una vecchiaia attiva, dunque, che non vuole essere emarginata.
È vero che anche molti giovani sono oggetto di forme di emarginazione forzata e di conseguenza patiscono una condizione di frustrante inoperosità, tuttavia, se considerata da questa angolazione l’esclusione dal ciclo produttivo è certamente un problema, da un’altra, quella che la figura del vecchio ci consegna, la valorizzazione di una cifra umana non piegata alla sola logica dell’utile e del profitto, ha il significato di una liberazione.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)