Settembre è il mese mondiale dell’Alzheimer e il 21 settembre è la giornata celebrativa istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Alzheimer’s Disease International (ADI). Una ricorrenza che ogni anno cerca di ampliare una conoscenza sociale sulle difficoltà provocate da questa malattia sia per chi ne è affetto che per chi se ne prende cura. “Colui che si prende cura”, in effetti, è l’esatta traduzione del termine “caregiver”, entrato di diritto nel dizionario di uso comune.
Se i malati di Alzheimer in Italia sono più di 600.000, i caregiver sono molti di più e in molti casi sono familiari, figli, fratelli o coniugi che ricoprono il ruolo assistenziale. Spesso ci si trova a rivestire questa parte da un giorno all’altro in seguito alla diagnosi come nel caso di Rosa, sessantaduenne figlia di una donna con Alzheimer. “Mia madre viveva da sola, ma io e mia sorella andavamo da lei ogni giorno. Certo, aveva qualche dimenticanza in qua e in là, ma non ci era mai sembrato allarmante”, racconta. “Cominciammo ad insospettirci quando un pomeriggio mi disse di non ricordare i nomi delle sue sorelle. Per questo e per altre piccole cose, iniziammo a controllare di nascosto che tutto fosse in ordine. Mia madre usciva la mattina, andava a fare la spesa, cucinava il pranzo e faceva il bucato: era autonoma. Ma in realtà eravamo noi a credere che lo fosse. Un giorno mi accorsi che nel frigorifero c’era un calzino, quando le chiesi cosa fosse successo, si mise a ridere e disse di non ricordarsi perché fosse lì. Poco tempo dopo cominciò a raccontarci che durante la notte riceveva telefonate da sconosciuti e quando in casa non trovava ciò che le serviva, pensava che qualcuno glielo avesse rubato. Mia sorella la portò dal medico una mattina: da quel giorno mia madre fece una serie di esami specifici che finirono con una diagnosi di Alzheimer moderato. Il medico lo disse a noi, ma concordammo che fosse meglio tenerla all’oscuro.”
La diagnosi di una demenza o Alzheimer, infatti, spesso non viene comunicata al diretto interessato, ma ai familiari. Questo per evitare di indurre nel paziente sentimenti di paura, sconforto o smarrimento. Uno stato emotivo che , però, può colpire il caregiver di riferimento. Nell’80% dei casi il malato vive in famiglia ed è assistito da un sistema di supporto “informale” che comprende amici e parenti. Si tratta di situazioni delicate soprattutto in presenza di disturbi comportamentali come agitazione, istinto di fuga o insonnia che spesso incidono sulla dura scelta dell’inserimento in struttura.
La giornata dei caregiver scorre in un impegno quasi costante: circa il 31% dei familiari, infatti, dichiara di essere impegnato per più di 10 ore al giorno nell’assistenza diretta. Dal punto di vista psicologico, i parenti impegnati nel ruolo assistenziale lamentano un elevato carico di stress emotivo che li espone maggiormente al rischio di soffrire di disturbi d’ansia e depressione. Per cercare di ridurre questi sentimenti negativi, un team dell’università di Northwestern ha ideato un metodo per portare i caregiver a concentrarsi sulle proprie emozioni positive per affrontare al meglio gli aspetti più stressanti della relazione di cura.
Si chiama metodo Leaf (“Life enhancing activities for family caregivers” - Attività di miglioramento della vita dei caregiver familiari) e prevede l’esecuzione di alcuni compiti in grado di abbassare i livelli di ansia e depressione. Tra i primi insegnamenti c’è quello di saper riconoscere almeno un evento positivo al giorno per poi annotarlo su un diario o raccontarlo a qualcuno. Viene anche chiesto di pensare a un proprio punto di forza e valutare come lo si è sfruttato in tempi recenti oppure di porsi un obiettivo giornaliero e monitorare i progressi fatti per raggiungerlo. Spesso è consigliato l’utilizzo di tecniche di mindfulness e meditazione per esercitarsi sulla consapevolezza di sé.
Durante la sperimentazione si è potuto constatare che i caregiver che avevano seguito il metodo Leaf per un periodo di sei settimane riportavano miglioramenti dello stato umorale. Uno dei caregiver che ha seguito la sperimentazione ha commentato: “Partecipare a questo studio mi ha aiutato a concentrarmi sulla mia vita. Prima ero focalizzato sul tema della demenza e non riuscivo a far altro che pensarci: tutti gli altri aspetti della mia vita erano passati in secondo piano. Ora ho imparato a concentrarmi sulle piccole cose positive che mi capitano durante la giornata. Ovviamente la malattia di mio padre è ancora presente, ma so che posso concedermi qualche momento di riposo di tanto in tanto.” Il team di ricercatori sta sviluppando una versione online autoguidata di questo metodo per cercare di aiutare un numero sempre più crescente di caregiver.