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Codignola Agnese

Alzheimer, il dubbio sui nuovi farmaci apre la via agli antivirali

Il Sole 24 ore, 19-10-2021

Un nuovo anticorpo monoclonale per la cura della malattia di Alzheimer, il ganeterumab di Roche, diretto contro la proteina beta amiloide ha ricevuto dalla Food and Drug Administration lo status di breakthrough therapy, cioè di terapia così promettente da meritare un iter di valutazione accelerato, di solito anticamera dell’approvazione vera e propria. Decisione analoga era già stata presa per gli altri monoclonali lecanemab di Eisai e Biogen e donanemab di Eli Lilly, tutti sospinti dalla prima approvazione in assoluto, quella dell’aducanumab di Biogen, dello scorso giugno.

Gli anticorpi in corsa condividono il meccanismo d'azione, ossia la riduzione delle placche di beta amiloide, ma anche le criticità, sia nella conduzione degli studi clinici, che non avrebbero dimostrato reali benefici per i pazienti, sia nel presupposto teorico che ha motivato le ricerche, ossia l’idea che per sconfiggere la demenza occorra concentrarsi sulle placche. Che molto resti da chiarire lo confermano le polemiche furibonde scatenate dall’aducanumab, ma le discussioni potrebbero essere superate dai fatti: per quanto riguarda l’aducanumab, la stessa Fda ha dato nove anni di tempo a Biogen per confermare la sua terapia.

Per quanto riguarda gli altri, l’agenzia attende il risultato di studi clinici che stanno coinvolgendo migliaia di pazienti, che dovrebbero giungere nel 2022. Uno strumento alternativo alla beta amiloide è oggi l’ipotesi virale, che si concentra sulla possibilità che il responsabile sia l’herpesvirus di tipo 1, soprattutto nelle persone che hanno una predisposizione genetica. Osservazioni cliniche come quella contenuta in uno studio del 2018 su oltre 8.300 persone, hanno confermato che chi ha l’infezione e la cura, nei 10 anni successivi ha un rischio inferiore del 90% di sviluppare la demenza rispetto a chi non assume antivirali.

Un approccio diverso è invece quello dello studio dell’Università di Okinawa, in Giappone, che ha analizzato con tecniche di proteomica il sangue di 8 pazienti e di 16 controlli (metà anziani e metà giovani), trovando ben 33 proteine profondamente alterate nei malati. Sette, note per essere tossiche per l’uomo, erano presenti in quantità abnormi, mentre le altre 26, conosciute per la loro azione protettiva, erano molto diminuite. Gli autori stanno già cercando conferme nei modelli animali, cioè verificando se neutralizzando le proteine tossiche o, viceversa, fornendo quelle protettive, si manifestano i sintomi della demenza oppure, rispettivamente, quella già presente si ferma, o regredisce.

(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)

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Autore (Cognome Nome)Codignola Agnese
Casa Editrice, città
Collana
Anno Pubblicazione2021
Pagine
LinguaItaliano
OriginaleSi
Data dell'articolo2021-10-19
Numero
Fonte
Approfondimenti Online
FonteIl Sole 24 ore
Subtitolo in stampaIl Sole 24 ore, 19-10-2021
Fonte da stampare(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)
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