Finalmente, dopo anni di studi e ricerche, la conferma è arrivata: il microbioma intestinale è correlato allo sviluppo dell’Alzheimer, malattia ancora oggi incurabile che colpisce, solo in Europa, quasi un milione di persone. A dimostrarlo è un team di ricercatori dell’Istituto Centro San Giovanni Di Dio Fatebenefratelli di Brescia, dell’Università di Napoli, del Centro Ricerche Sdn di Napoli, in collaborazione con l’Università di Ginevra (UniGe) e gli Ospedali universitari di Ginevra (Hug). Lo studio, appena pubblicato sulle pagine della rivista Journal of Alzheimer’s Disease, conferma il legame tra uno squilibrio del microbioma intestinale e lo sviluppo delle placche amiloidi nel cervello, caratteristiche della malattia di Alzheimer. Risultati che aprono la strada a nuove strategie, basate sulla modulazione del microbioma, in grado di prevenire le malattie neuro-degenerative.
Dallo studio è emerso che le proteine prodotte da alcuni batteri intestinali, identificate nel sangue dei pazienti, potrebbero modificare l’interazione tra il sistema immunitario e il sistema nervoso e così innescare la malattia di Alzheimer. “Abbiamo già dimostrato che la composizione del microbiota intestinale nei pazienti con malattia di Alzheimer è alterata rispetto a quella delle persone che non soffrono di tali disturbi”, spiega Giovanni Frisoni, che ha coordinato lo studio. Risultati, quindi, che provano il legame tra alcune proteine del microbioma intestinale e l’amiloidosi cerebrale attraverso un fenomeno infiammatorio del sangue. E che aprono la strada a strategie di prevenzione, come per esempio, lo sviluppo di un cocktail batterico o di prebiotici in grado di “nutrire” i batteri buoni nell’intestino. “Tuttavia, dovremmo tenere i piedi per terra”, avverte Frisoni. “Dobbiamo prima identificare le varietà del cocktail. Inoltre, un effetto neuroprotettivo potrebbe essere efficace solo in una fase molto precoce della malattia, in un’ottica di prevenzione piuttosto che di terapia. Purtroppo la diagnosi precoce è ancora una delle principali sfide nella gestione delle malattie neurodegenerative: devono ancora essere sviluppati protocolli per identificare gli individui ad alto rischio, e poterli trattare ben prima della comparsa di sintomi rilevabili”.
(Fonte: tratto dall'articolo)