Una parte dei neurologi festeggia l’approvazione di un anticorpo monoclonale contro la proteina beta amiloide per la cura dell’Alzheimer, ma tre membri del comitato che ha formulato un’opinione contraria si dimettono, in segno di disaccordo. E la spaccatura si ritrova in molti commenti resi noti in questi giorni. L’aducanumab è il risultato di due studi condotti su 3.000 pazienti in 20 paesi. Inizialmente è stato considerato inefficace, ma dopo una revisione dei dati, in uno solo dei due trial avrebbe mostrato di ridurre la formazione delle placche di circa un terzo, e di migliorare le funzioni cognitive del 22% in soggetti con malattia in fase precoce, ai dosaggi più alti. Un effetto che, secondo il panel dell’Fda, sarebbe comunque troppo esiguo per giustificare un’approvazione di un monoclonale che dovrebbe costare 56.000 dollari all’anno. Ma l’agenzia ha deciso diversamente.
Per altri esperti l’aducamumab, al contrario, sarebbe il primo trattamento capace di incidere realmente sul decorso della malattia, e non solo di tamponarne le conseguenze. Il punto è che l’Alzheimer è una malattia estremamente complessa, la cui evoluzione è sostenuta da diverse proteine anomale e da diversi geni ed è influenzata dallo stile di vita. Intervenire su una sola di queste vie non significa dunque necessariamente curarla. Quando iniziano a comparire i sintomi, cioè quando si dovrebbe somministrare questo anticorpo, il danno ha già iniziato a prodursi, e difficilmente regredirà.
Tuttavia, l’approvazione rappresenta un punto di svolta. Nei prossimi 9 anni di ulteriore sperimentazione si capirà, su una platea di migliaia di pazienti, se l’ipotesi della beta amiloide è valida o meno, in una situazione di real life, almeno per fermare la neurodegenerazione. Le polemiche, però, hanno preso di mira l’effetto clinico ancora dubbio. E hanno chiamato in causa l’uso sempre più pervasivo dei cosiddetti endpoint secondari, cioè di parametri indiretti di efficacia, considerati pericolose scorciatoie. In questo caso, dimostrare che l’anticorpo riduce le placche (endpoint secondario) non significa, necessariamente che ci sia un effetto sulle performance cognitive (scopo primario).
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)