Una cura per l’Alzheimer, dopo venti anni di ricerche, miliardi di dollari investiti e 300 progetti nel mondo non si è trovata, tanto che alcune multinazionali hanno deciso di non investirci più. Si è visto che è una malattia complessa, di un organo, il cervello, altrettanto complesso. All’inizio si pensava sarebbe bastato un farmaco capace di eliminare gli accumuli della proteina beta-amiloide nel cervello, caratteristica dell'Alzheimer, per eliminare la patologia, ma si è appurato che non è così. Ora ci sono anche aziende più piccole e agili delle Big Pharma che hanno un centinaio di farmaci in sperimentazione, con un approccio diverso, che cerca di agire non più contro un solo bersaglio, ma contro i maggiori presunti "killer": la beta amiloide, certo, ma anche la proteina Tau e l'attività antinfiammatoria attorno alle placche di beta amiloide, oltre a una serie di altri possibili attori. Inoltre ci sono diversi studi per i farmaci sperimentali per le fasi precocissime della malattia, quando è ancora disponibile una discreta quantità di «riserva neurale», le sinapsi e le connessioni che giacciono inutilizzate. Questa riserva è geneticamente determinata nella sua quantità, ma, grazie agli stili di vita può essere implementata o impoverita dallo stile di vita. Si può così intervenire in modo più efficace, sia con i farmaci a disposizione sia con modifiche mirate allo stile di vita e con interventi riabilitativi. In questo modo si può cambiare il decorso della malattia, rallentandola, e aiutare i pazienti a preservare l'indipendenza nella vita quotidiana. Da alcuni mesi è nato il progetto «Interceptor», finanziato dal ministero della Salute e dall'Aifa, l'Agenzia del farmaco che cercherà capire, in 500 soggetti, al termine dei 3 anni dello studio, qual’è la combinazione di biomarcatori migliore per identificare i casi a rischio Alzheimer.
(Sintesi redatta da: Balloni Flavia)