Dalla vita Alice ha avuto tutto quello che una donna può desiderare: è una professionista affermata, insegna linguistica presso la Columbia University, ha un marito affascinante e tre figli affettuosi.
L’unica piccola ombra su una vita appagante è rappresentata dalla figlia minore, ostinatamente orientata a compiere scelte che lei non approva.
Alice è una donna volitiva che dalla vita ha voluto tutto e per quel tutto ha lavorato sodo.
Arrivata a cinquant’anni, Alice incontra il limite. Una malattia degenerativa la colpisce proprio nelle funzioni sulle quali ha puntato di più: il linguaggio, la memoria.
Perdersi, questa è la sensazione che prova Alice, questo il titolo del romanzo di Lisa Genova, neuroscienziata, da cui è tratto il film che ha guadagnato a Julianne Moore la candidatura al premio Oscar.
Perdersi, non ritrovarsi, non sentirsi più se stessi. Queste le sensazioni che prova anche lo spettatore immedesimandosi nella storia magistralmente interpretata dalla Moore. La regia, sensibile e accurata, di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, coppia nella vita e sul set, riesce a far entrare lo spettatore nella prospettiva del malato, forse anche a causa della storia personale di Glatzer, affetto da Sla.
Il film ci propone una storia in controtendenza rispetto ai dati diffusi proprio in questi giorni sull’identikit del malato di Alzheimer, che identifica nelle donne con bassa istruzione le persone maggiormente colpite dalla malattia.
Alice si aggrappa ad ogni singolo istante di vita che le resta in cui riuscirà rimanere presente a se stessa. La storia, come avviene oltre gli schermi, investe non solo la persona che si scopre malata, ma tutta la sua cerchia familiare. E sarà proprio Lydia, la figlia in perenne contrasto con la madre che, più di ogni altro, saprà accompagnare Alice. Saprà riconoscerla ed amarla anche mentre la malattia avanza, vedrà in lei sempre e ancora Alice. (Fonte: www.50epiu.it)