In Italia il tema dell’eutanasia è un tabù, anche quando si parla di vite piegate da malattie che non lasciano speranze. La vita che ciascuno di noi non ha scelto, ma che ha ereditato dall’Altro — come un dono (Sant’Agostino) o come una colpa (Schopenhauer) — ha il diritto di porre fine a se stessa di fronte a dolori insopportabili senza possibilità di miglioramento o di guarigione? L’autore propone di vedere le cose da un’altra prospettiva. La psicoanalisi insegna che la vita che si ammala e diventa sterile, asfittica, spenta, è la vita eccessivamente attaccata a se stessa. Quindi l’attaccamento eccessivo alla vita può essere una forma di distruzione della vita. Il teologo Dietrich Bonhoeffer vede la vita innanzitutto come resistenza alla morte, alla distruzione, al Male. Anche il potere della tecnica che orienta il medico dovrebbe essere in grado di accettare che la vita debba incontrare prima o poi il tempo della sua resa. Quindi darsi o dare la morte quando la vita incontra un muro invalicabile (come una malattia mortale) non è fuggire il limite, ma assumerlo. Il diritto laico all’autodeterminazione non implica alcun delirio di autoaffermazione. Perché la vita non è nostra, ci sfugge da tutte le parti. Freud diceva che la malattia e la morte del nostro corpo scardinano ogni illusione di padronanza. Nel donare la morte attraverso l’eutanasia non si tratta di rinunciare a resistere, ma di assumere, di fronte alla inesorabilità irreversibile della malattia, il sentimento della resa, di fare spazio alla nostra insufficienza. È infatti, il sentimento della resa, assai più di quello euforico della vittoria, a rendere la nostra vita profondamente umana.
(Sintesi redatta da: Flavia Balloni)