Gianni Berengo Gardin continua a fotografare ciò che lo circonda a Camagli, dove si è ritirato a vivere. Foto in bianco e nero con cui continua a mostrare il mondo, anche ora che ha quasi 90 anni (li compie il 10 ottobre). Ha dettato da poco alla figlia Susanna la sua autobiografia "In parole povere", perché ama più le immagini delle parole. Ha iniziato a fotografare durante la guerra, ma non ama sentirsi definire artista: «Fotografo non basta? Dica narratore. Ho raccontato quel che ho visto. Non mi piaceva studiare ma leggere sì, ho amato i grandi americani, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos, nel dopoguerra la mia generazione amava tutto quel che era americano, il cinema, i gesti, la gomma da masticare, e naturalmente la fotografia». Negli anni 50 scappò a Parigi dove conobbe i grandi artisti che in quegli anni animavano la capitale francese, tra cui i fotografi Robert Doisneau (con cui litigò) e Willy Ronis. Spiega che nelle sue foto «C’è il mondo. Io sono quello che lo guarda. Sono sempre stato di sinistra ma non ho ideologie, cos’era il comunismo me lo insegnarono gli operai dell’Alfa che fotografavo a Milano, cos’è la giustizia e la dignità lo vidi coi miei occhi là dove mancavano, nei manicomi in cui Franco Basaglia mandò Carla Cerati e me…». Per lui una buona fotografia è quando racconta bene, ma senza inventare. Non ama il digitale perchè produce immagini troppo precise, e fa venire la tentazione di manipolarle. Infatti dietro le sue foto mette un l timbro polemico «Vera fotografia, non corretta, modificata o inventata al computer». Anche ora ha in cantiere un libro, il duecentosessantunesimo che sarà su San Fruttuoso.
(Sintesi redatta da: Balloni Flavia)