"Sempre più anziani al lavoro", non solo in Italia ma in tutto il mondo: per l'economia è un bene, ma c'è tutta un'altra serie di problemi. Lo scrive il Wall Street Journal che mette in evidenza il cambiamento demografico storico che nei prossimi decenni vedrà gli over 60 diventare la coorte demografica più numerosa in gran parte dei paesi più ricchi, Italia, Germania e Giappone in testa (l’Italia è ufficialmente in declino demografico), ma che sembra non stia avendo – almeno per quanto riguarda il lavoro – effetti negativi.
Il fatto che ci sono sempre più anziani che lavorano è un risultato positivo almeno per la crescita economica: questa considerazione emerge da una ricerca realizzata dall’OCSE, l’organizzazione che raggruppa i paesi più industrializzati al mondo. Questo fenomeno sta contribuendo infatti a mitigare gli effetti economici negativi che ha sull’economia la diminuzione nel numero di nuovi nati, il rovescio della medaglia dell’invecchiamento della popolazione. Secondo i dati dell’OCSE, infatti, la partecipazione al mondo del lavoro degli over 65 nel 2018 ha raggiunto un record storico: in media nei paesi OCSE il 15,3 per cento di loro lavora. Complessivamente, la forza lavoro di paesi come Italia, Giappone, Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia è aumentata dal 2001 a oggi di quasi 18,8 milioni di unità, il 5,5 per cento in più del totale, grazie all’afflusso di over 55. Se non fosse per loro, oggi ci sarebbero potenzialmente al lavoro meno persone di 30 anni fa. Se in Germania la percentuale di over 55 al lavoro fosse rimasta la stessa del 1991, continua lo studio dell’OCSE, il paese avrebbe perso circa un milione di lavoratori, cioè il 2,4 per cento del totale. Invece la forza lavoro è cresciuta del 9,6 per cento, cioè 3,8 milioni di unità.
Secondo la stessa ricerca dell’OCSE, realizzata dall’economista esperto di lavoro Mark Keese, anche l’Italia si sarebbe trovata nella stessa situazione. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, infatti, la partecipazione al lavoro degli over 55 è calata in quasi tutto il mondo sviluppato; in alcuni casi, come in Italia, raggiungendo punte grottesche, con categorie specifiche privilegiate i cui membri potevano raggiungere la pensione prima dei cinquant’anni e, in alcuni rari casi, persino prima dei quaranta (con pensioni molto basse). Altri dati importanti, infine sono che l’Italia, per esempio, ha iniziato a introdurre una serie di misure che hanno portato l’età minima di pensione anticipata dai 52 anni del 1966 agli attuali 61 fissati nel 2011 dalla riforma Fornero, in crescita automatica e vincolata all’aumento dell’aspettativa di vita. In Italia la partecipazione al lavoro degli anziani tra i 55 e i 64 anni è passata dal 54 per cento del 2003 al 78 per cento del 2018, secondo la ricerca di Keese.
Alla piena occupazione (o quasi) della prima metà del Dopoguerra si sono sostituiti lunghi decenni in cui il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli un tempo ritenuti socialmente insostenibili. L’Italia per esempio ha, da oltre un decennio, un tasso di disoccupazione intorno al 10 per cento, mentre quella giovanile è al 30 per cento.
(Fonte: tratto dall'articolo)