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Coniugare empatia e performance: il lavoro del Philanthropy advisor

www.secondowelfare.it, 18-12-2020

Nel mondo del lavoro c’è una figura professionale poco nota in Italia, capace di supportare i donatori a orientarsi nel mondo del non profit e a investire le proprie risorse in modo attento all’impatto sociale e ambientale. È il Philanthropy advisor.

Dunque, cosa effettivamente fa un Philanthropy advisor? Sostanzialmente aiuta donatori a orientarsi nel mondo del non profit e a investire le proprie risorse in modo attento all’impatto sociale e ambientale delle proprie donazioni. Un lavoro di consulenza che corrisponde ad un processo lungo di conoscenza: a partire dalle esigenze del donatore che viene accompagnato a conoscere il mondo del non profit e della cooperazione, a distinguere i vari progetti e a riflettere sugli effetti sui beneficiari delle proprie donazioni.

Il concetto di filantropia strategica è proprio del mondo anglosassone, la sua applicazione incontra diversi ostacoli di natura culturale nel nostro paese, come sanno coloro che lavorano in questo settore. La stessa parola “filantropia” può essere vista con sospetto per due ordini di ragioni. Il primo ordine riguarda l’accusa di “filantrocapitalismo”, termine che nasce nell’ambito di un dibattito critico rispetto alle azioni filantropiche di grandi magnati come Bill Gates e Mark Zuckerberg. Il secondo ordini di ragioni può essere riassunto in quell’adagio molto diffuso nella cultura italiana: “il bene si fa, ma di nascosto!”.

Si tratta dunque di una figura professionale relativamente nuova, ma che sta diventando più attraente e interessante. Per fare questo mestiere non basta conoscere il mondo della cooperazione e del Terzo Settore, bisogna conoscere anche il mondo dei finanziatori, avere gli strumenti per riconoscerne le motivazioni, aspettative e orientarli verso il risultato. Si tratta, in altre parole, di accompagnare i donatori nel coniugare mente e cuore, empatia e performance, nel fare filantropia.

È infatti importante fare del bene, bene: ovvero essendo consapevoli dei risultati e dell’impatto delle proprie donazioni, per questa ragione è nato un movimento che si chiama “altruismo efficace” con lo scopo di favorire forme di filantropia evidence based. Anche se è bene non dimenticare anche l’aspetto emotivo che è alla base dell’altruismo, poichè nell’atto di donare riceviamo una ricompensa emotiva. La ragionevolezza fondata sui dati deve quindi coniugarsi con la ricompensa emotiva. Allo stesso tempo, agire esclusivamente sulla base delle emozioni può rendere la filantropia inefficace. 

Un errore - quest’ultimo - che porta indietro negli anni ad una filantropia incapace di confrontarsi con il cambiamento sociale che potenzialmente può generare. Bisogna inoltre stare attenti a discorsi emotivi che fanno leva sugli stereotipi, pensiamo alle pubblicità che invitano a donare in Africa riproducendo immagini stereotipate di quel continente o di altri paesi del Sud: “Quanti sanno che ad Addis Abeba c’è una metropolitana più moderna di quella di Milano, quanti sanno delle start up sociali del Kenia, o degli avanzatissimi incubatori di giovani imprenditori in Pakistan?”.

(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)

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Data dell'articolo2020-12-18
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Fontewww.secondowelfare.it
Approfondimenti Onlinewww.secondowelfare.it/privati/investimenti-nel-sociale/il-lavoro-del-philanthropy-advisor-coniugare-empatia-e-performance.html
Subtitolo in stampawww.secondowelfare.it, 18-12-2020
Fonte da stampare(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)
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Parole chiave: Lavoro socialmente utile No profit