La religione è da tempo al centro del dibattito politico e sociale del Paese, senza però suscitare un rinnovato interesse degli italiani verso di essa. Anzi, guardando i dati la tendenza sembra tutt’altra. L’Istat ha recentemente fotografato la nostra propensione alla pratica religiosa e ne esce un Paese che va verso la secolarizzazione. Nel 2006 una persona su tre (esattamente il 33,4%) frequentava luoghi di culto almeno una volta alla settimana, percentuale oggi scesa al 29%, mentre è cresciuta la percentuale di coloro che dichiaravano di non frequentare mai luoghi di culto, passata dal 17,2 al 21,4%. E i dati sono comunque superiori alla realtà perché nelle statistiche si tende a dichiarare quel che si vorrebbe fare e non quello che si fa davvero e anche per la presenza dei bambini tra i 6 e i 13 anni che con il loro 51,9% del 2015 spingono in alto la percentuale. Per quanto riguarda le fasce di età, rispetto al 2006 quella che ha perso più frequentatori nei luoghi di culto è quella tra i 55 e i 59 anni, e potrebbe essere estesa ai 60-64enni, dove il calo è stato del 25%. Il sociologo Franco Garelli, uno dei massimi esperti dell’argomento, spiega: «Questo fenomeno può essere dettato da due dinamiche: da una parte in quella fascia d’età molti si costruiscono una seconda vita alternativa. Dall’altra può essere un portato della crisi: persone uscite dal ciclo produttivo impegnate a rientrarci». Da un punto di vista geografico l’Italia appare molto divisa tra Nord e Sud con la Sicilia più religiosa (oltre il 37% va almeno una volta a settimana in un luogo di culto) e la Liguria più agnostica e atea (oltre una persona su tre non frequenta mai e solo il 18,6% lo fa con assiduità). Sul fronte delle professioni quadri, impiegati, casalinghe e pensionati sono le più religiose. Dirigenti, imprenditori, liberi professionisti, operai e studenti quelle meno. «Chi riceve stimoli o è impegnato in lavori concettuali o manuali più impegnativi si dedica meno al trascendente» spiega Garelli.
(Sintesi redatta da: Flavia Balloni)