Stephen Cave, direttore del Centro di Leverhulme (Università di Cambridge), nel suo ultimo libro 'Immortality: The Quest to Live Forever e How It Drives Civilization' sostiene che esistono quattro grandi categorie di “bugie” che l’uomo si racconta per spiegare la fine della vita. La prima la chiama “Elisir” e, con questa, l’uomo si convince che prima o poi verrà inventata una pillola o una pozione che interrompa l’invecchiamento. La seconda categoria la chiama “Resurrezione” e consiste nella speranza che la fine non sia la fine vera ma ci consenta di rinascere nel nostro corpo o in uno nuovo reincarnandoci. La terza categoria denominata “Anima”, ammette la fine del corpo ma non quella della nostra anima, che continuerebbe a vagare sotto forma di spirito sulla terra. La quarta bugia si chiama “Legacy” e ammette sia la fine del corpo che dell’anima; per questo spinge l’essere umano a creare in modo quasi ossessivo qualcosa di memorabile. In tutti questi casi ci si affida alla scienza e la religione è messa da parte anche per rispondere a domande che riguardano la nostra spiritualità. Non a caso un campo specifico della psicologia sociale, chiamato “Teoria della gestione del terrore”, si basa sulla capacità dell’uomo di credere a qualsiasi promessa gli venga fatta a fronte dell’idea della sua fine. Per Cave, specie tra i miliardari della Silicon Valley, è in corso una gara al finanziamento di ricerche per allungare la propria esistenza, senza pensare che proprio qui è stato inventato il selfie come metodo finora più plausibile per restare vivi in eterno.
(Sintesi redatta da: Carrino Antonella)