"Mamma, sei sempre nei nostri cuori, ti pensiamo sempre": poche parole, di una figlia alla madre anziana. Le ha scritte su un foglietto e l'ha affidato a una delle psicologhe che lavorano nei reparti Covid-19 del Policlinico San Matteo di Pavia.
"Era da due settimane che questa figlia non vedeva né parlava con la madre ricoverata. È una malattia devastante perché isola le persone e crea un vuoto di comunicazione. Il biglietto restituisce concretezza e fisicità al rapporto", spiega Damiano Rizzi, psicologo clinico e presidente della Fondazione Soleterre, ong che da poco più di una settimana ha avviato un progetto di assistenza psicologica a medici, infermieri, pazienti e famigliari. "Ci sono così tanti pazienti che medici e infermieri fanno fatica a conoscerli. Non riescono a creare quel rapporto medico-paziente-famigliare che finora caratterizzava il loro lavoro. Non hanno il tempo per conoscere la storia dei pazienti. E questo è uno degli aspetti che più mette in crisi il personale di questi reparti: lavorano solo sui corpi.
Il compito degli psicologi è anche quello di ricostruire le storie dei pazienti, tenendo i contatti con i famigliari. "I parenti si sentono in colpa perché pensano di essere stati il veicolo del contagio. E spesso la situazione precipita nel giro di poche ore. Non c'è quindi il tempo per condividere le scelte terapeutiche. E la cosa più straziante è che tutto questo avviene senza la possibilità di vedere e toccare il proprio famigliare ricoverato".
E poi c'è la morte. La notizia ai famigliari arriva via telefono. Magari sono stati informati qualche ora prima che la situazione era disperata. E non c'è solo lo strazio di non essere stati vicini alla madre, al padre, al parente negli ultimi istanti della sua vita. "Ci sono salme in attesa da giorni di essere cremate - racconta Damiano Rizzi-. Il fatto di non sapere dove sia il corpo di una persona a noi cara è un peso umanamente inaccettabile".
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)