Il comparto delle Rsa in Italia è cresciuto negli ultimi 20 anni prevalentemente ad opera dell’iniziativa privata (multinazionali), ma risulta ancora sottodimensionato rispetto ad altri Paesi. Basti confrontare i circa 280.000 posti letto sul territorio nazionale con i 370.000 della Spagna, i 720.000 della Francia, gli 870.000 della Germania. A seguito della pandemia si sono aperte una serie di questioni riguardanti il settore.
Anzitutto è nato un problema di reputazione e affidabilità delle strutture che condiziona i tempi di ricovero; poi una crisi nei bilanci legato al calo dei ricoverati; la questione del personale, data l’emorragia degli operatori verso settori più remunerativi, con la conseguente difficoltà a provvedere al ricambio; una iper-regolazione dell’organizzazione delle residenze, dal personale, alla logistica, alle prestazioni, che lascia poco spazio alla sperimentazione di moduli residenziali diversi, meno rigidi e più adeguati ad una utenza con caratteristiche differenziate. I
nfine si registra anche un tema di dimensione e apertura al territorio. Le residenze accolgono diversi gradi di autosufficienza e fragilità, ospiti con residue facoltà di autonomia cui gioverebbero realtà più ridotte, come i mini alloggi, il co-housing e il welfare collaborativo. A proposito della contrapposizione Rsa/ servizi domiciliari molto in voga in questo periodo, va segnalato che non si tratta di due sistemi alternativi e in opposizione.
Cure domiciliari e residenze sono risorse complementari che richiedono la creazione di una filiera di aiuti tra il domicilio e nuovi tipi di residenze, più piccole e legate al territorio. Questo anche tenendo conto che il PNRR stanzia 4 miliardi per il potenziamento dei domiciliari, che si tende ad identificare con l’ADI, servizi sostanzialmente infermieristici con limiti di intensità e durata, mentre le cure domiciliari dovrebbero assumere un aspetto globale e di integrazione con i servizi sociali del territorio.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)