Il medico non è obbligato ad aiutare un paziente a togliersi la vita: solo non è punibile per il reato di aiuto nel suicidio, previsto dall’articolo 580 del Codice penale, se il malato versa in alcune specifiche condizioni. E attenzione: tra queste, vi è l’effettivo (previo) coinvolgimento del malato in un percorso di cure palliative.
La Corte costituzionale ha innalzato gli argini entro i quali dovrà muoversi la nuova legge sul fine vita. D’ora innanzi, dunque, sarà penalmente tollerato l’aiuto al suicidio, ma solo quando presto prestato a una persona sottoposta a trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, che resti tuttavia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Precisa però la Consulta che «in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge [...] il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire [...] un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente». Il suicidio non sembra dunque diventare un “nuovo diritto”, bensì più semplicemente una facoltà del singolo, esercitabile in un limitato (e oggettivamente raro) concorso simultaneo di circostanze.
È dunque questo il recinto entro il quale dovrà muoversi il Parlamento: un’area ben delimitata, che non potrà lasciarsi abbattere dalle forti istanze eutanasiche alla base della vicenda giudiziaria iniziata nel 2017 presso la Corte d’assise di Milano e poi approdata in Consulta.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)