Numerose ricerche hanno rilevato come la pandemia abbia cambiato le condizioni di vita delle famiglie. Gran parte di loro ha subito una notevole riduzione del proprio reddito e dell’orario di lavoro. E la crisi economica ha colpito maggiormente i nuclei appartenenti alle fasce più basse della distribuzione del reddito da lavoro.
Nel complesso si è dunque assistito ad una diffusa crescita della povertà. Le ricerche fanno pensare che la crisi abbia ridotto di fatto la zona dell’integrazione sociale, ma soprattutto abbia ampliato a dismisura la zona della vulnerabilità, quella cioè dell’insicurezza economica e sociale. Una parte dei gruppi più vulnerabili sta scivolando verso la cosiddetta zona di disaffiliazione, ossia quella dell’esclusione vera e propria dal mercato del lavoro, accompagnata da una grave deprivazione materiale, fragilità delle relazioni umane e della tutela sociale.
Tuttavia in questi mesi non si è assistito ad un collasso generale dei tre pilastri dell’integrazione sociale che consentono di affrontare nuovi e vecchi rischi sociali: famiglia, lavoro e welfare. In questo periodo, infatti, le risorse di welfare sono cresciute nel settore sanitario e nell’istruzione con effetti nel lungo periodo. In secondo luogo, la famiglia ha manifestato una elevata e crescente capacità di affrontare la crisi, di creare apporti di cura e di supporto tra i propri membri e nell’ambito della comunità. Sono aumentati gli interventi di mutua assistenza tra il vicinato grazie a nuove forme di socialità e aiuto reciproco, nella costruzione di nuove forme associative. Per contro, la pandemia ha invece peggiorato ulteriormente le criticità del mercato del lavoro: crescono i lavori scarsamente retribuiti, il lavoro sommerso, i contratti a breve termine.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)