Nelle comunità di cura la pandemia si è tradotta in professioni sanitarie molto esposte in luoghi come ospedali, medici di base, residenze per anziani e disabili. Ma a essere coinvolte sono state anche le professioni sanitarie non primariamente impegnate nell’emergenza che hanno dovuto mantenere una continuità nella cura ed evitare accessi negli ospedali. Si è dovuta inventare una modalità di presenza nell’assenza, non solo tramite telefonate e videochat. Gli stessi operatori, addestrati a lavorare in presenza, hanno dovuto cercare di mantenere tra loro una quotidianità e una familiarità di gesti pur sentendosi impreparati e spaventati.
Il ‘nuovo’ entrato nella quotidianità del servizio è stato definito da quel sentire comune di stare attraversando un momento di disagio e dall’esigenza di trovare parole all’interno del gruppo di lavoro prima ancora che con i pazienti. La pandemia ha acuito il senso che il lavoro della cura è un lavoro di gruppo, plurale, dove poter ospitare incertezze e paura di tutti, assistenti e assistiti. Un luogo dove ’ricucire’ gli strappi. Gli operatori hanno mantenuto un contatto quotidiano telefonico con i pazienti più gravi cercando di rispondere ai bisogni primari, come la spesa e il ritiro dei farmaci. Interventi a distanza nei quali è stato fondamentale l’apporto delle figure professionali più vicine ai pazienti: infermiere, Oss, educatori. Questa fase emergenziale ha mostrato una volta in più che il lavoro di cura è plurale e solidale, non tecnico né specialistico.
Ma cosa lascerà la pandemia? Occorre ripensare all’organizzazione del lavoro avviata in quel periodo, ripensando alla professione di cura che non rimane in attesa, negli ambulatori o nelle case in smartworking. L’operatore di cura, l’ha dimostrato, si attiva anche nel tempo del distanziamento, poiché solo attivandosi riesce ad attivare l’altro. C’è bisogno di rinnovare il patto fiduciario tra esseri umani stanchi e feriti, alla base del rapporto sociale. Bisogna conservare l’importanza delle pause – nelle telefonate, nei video o nel distanziamento fisico - come momenti di riflessione ma anche di identificazione tra paziente e terapeuta. Bisogna saper sopravvivere come terapisti stando bene sul luogo di lavoro con il supporto del gruppo e nel rapporto col paziente. E bisogna saper attendere i risultati della cura, così come durante la pandemia si sono sperimentate molte esperienze di attesa, davanti gli interrogativi dei pazienti (Andrà tutto bene?), o alla malattia di un collega. Adoperando i tempi dell’attesa come un momento di incubazione nel quale formulare risposte e speranze. Apprendere a stare insieme, a cooperare, a raggiungere un obiettivo comune, a farsi scudo uno con l’altro per contrastare dolore, malattia e conflitto. Questo testimonia un gruppo curante.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)