Il referendum per l’abrogazione del reato di omicidio del consenziente – la fattispecie dell’eutanasia – è l’ultima tappa di un percorso intrapreso più di 4 anni fa, iniziato con la 'legge sul biotestamento', la legge 219 del 2017, che cristallizza nell’ordinamento il principio giuridico apparso nelle sentenze finali del 'caso Englaro': idratazione e nutrizione assistite sono catalogate dal legislatore come trattamento medico, dunque possono essere rifiutate in ogni momento sulla scorta del principio costituzionale per cui nessuno può essere sottoposto a cure se non in forza di una legge specifica. Tale principio è stato poi richiamato, all’interno della stessa norma, nella previsione delle cosiddette 'Dat', le disposizioni anticipate di trattamento. La legge 219 poneva però un’altra disposizione: il medico che si fosse trovato innanzi a una richiesta contraria a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche cliniche, non avrebbe avuto alcun obbligo in tal senso.
Quest’ultimo chiarimento cade però dopo 2 anni, con la sentenza 242 del 2019 pronunciata dalla Consulta. Chiamati a decidere sulla legittimità del divieto di aiuto nel suicidio, quando a chiedere di morire era una persona gravemente malata e in preda a sofferenze ritenute insopportabili, i giudici costituzionali ritengono che le pene previste dall’articolo 580 del Codice penale – istigazione o aiuto al suicidio – non debbano essere applicate quando a richiedere di morire sia una «persona affetta da patologia irreversibile, e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, la quale ritenga le stesse intollerabili, e sia inoltre tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale (nel caso in questione, si trattava di un respiratore), ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli», e le sia già stata prospettato l’accesso alle cure palliative.
Segue poi la sentenza del 2020 pronunciata dalla Corte d’Assise di Massa Carrara su 'caso Trentini', confermata lo scorso luglio dalla Corte d’Appello di Genova che allarga il perimetro della non punibilità dell’aiuto al suicidi, così com’era stato disegnato dalla Corte costituzionale: per «trattamenti di sostegno vitale », si legge, non sono da intendersi solo la sottoposizione a un macchinario ma qualsiasi terapia salvavita, anche farmacologica: a quest’ultima era sottoposto il ricorrente, Davide Trentini, affetto dalla Sclerosi multipla.Infine l’ordinanza pronunciata in giugno dal Tribunale di Ancona contro l’Azienda Sanitaria Marche che interpreta la sentenza 242 della Corte costituzionale.
Il Tribunale di Ancona, dal canto suo, accoglie l’iniziativa giudiziaria di una malato grave, che aveva chiesto alla propria azienda sanitaria di erogargli il suicidio assistito sulla scorta di quanto stabilito due anni prima dalla Consulta, trattando il tema della punibilità o meno di chi aiuti a morire una persona che si trovi in determinate condizioni, non l’obbligo da parte delle istituzioni sanitarie di far morire chi ne faccia richiesta. Per esigere ciò, infatti, serve una legge specifica, che solo l’organo legislativo può adottare.
In Parlamento da tempo sono depositate proposte di legge su eutanasia e suicidio assistito. Mai, però, si è trovata la convergenza politica anche solo per calendarizzarle. A tentare di far sintesi tra visioni normative antitetiche l’una con l’altra è sceso in campo il deputato del Pd Alfredo Bazoli. Il suo testo unificato ricalca nella sostanza quanto suggerito dalla Consulta, con un’unica fuga in avanti: l’assenza, tra i prerequisiti per la 'morte a richiesta', della concreta sottoposizione del paziente alle cure palliative.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)