Si fa un gran parlare, tra analisi di scenario, prospettive e previsioni, dell’urgente necessità di individuare soluzioni operative atte a “mettere in sicurezza” - espressione sempre pronta a rimbalzare nei vari salotti televisivi con il consueto gruppo di esperti pronti all'analisi e alla soluzione di problemi complessi – la popolazione anziana.
L’85% dei decessi per il virus, che ha colpito gli over 70, sollecita ad andare oltre gli scontati schemi interpretativi, per approdare ad una politica di buon senso in grado di produrre visioni e proposte capaci di mettere in essere modelli di assistenza e di cura o più in generale nuove infrastrutture sociali che, partendo da una revisione del modello residenziale, facciano dell’anziano non tanto il beneficiario di assistenza quanto il soggetto protagonista.
Infatti la pandemia ha evidenziato i sostanziali limiti di fondo delle RSA, visto l’alto numero di contagi e decessi.
Di qui la necessaria riflessione che porti a valutare due aspetti fondamentali: una più efficace gestione dei processi di integrazione ospedale – comunità e un rilancio dei servizi socio-sanitari territoriali, già carenti in molte Regioni, specie quanto alle cure domiciliari.
È ormai accertato che elementi di disfunzioni strutturali e deficienze programmatorie sono emersi in maniera irrefutabile su tutto il territorio nazionale, in particolar modo in quei contesti a forte vocazione “ospedalocentrica”.
In ultima analisi è giunto il momento di superare l’obsoleto modello sanitario, basato unicamente su ospedali e su residenze. Così come sull’assistenza domiciliare integrata si dovrà investire di più visto che siamo il Paese con il maggior numero di anziani in Europa. Ad oggi rappresenta una quota insufficiente dell’assistenza, che si stima mediamente 16 ore all’anno per anziano.
(Fonte: tratto dall'articolo)