Genova - Chi è alpino, è alpino per sempre. E Lodovico Portesine, classe 1918, ieri era in prima fila all’adunata nazionale degli alpini ad Asti, con le medaglie sul petto e la penna nera sul cappello. L’alpino Portesine, compirà 98 anni a novembre e cammina ancora dritto sulle sue gambe.
Ed è lucidissimo, mentre sciorina con sicurezza date e nomi, la tragedia dell’Armir, la ritirata dalla Russia. «Cinquanta chilometri al giorno per trenta giorni, noi coi fucili e senza alcun equipaggiamento per affrontare l’inverno, ma si andava avanti senza resistenza. Solo di tanto in tanto, trovavamo corpi impiccati agli alberi: lì erano già passati i tedeschi». Poi la ritirata. Nella storia tragica dell’Armir, l’alpino Portesine ha il suo momento di gloria, che gli varrà la medaglia al valore tenuta per anni nel cassetto. «Siamo circondati, davanti a noi ci sono forse dieci carri armati e per rispondere al fuoco abbiamo solo i nostri fucili congelati, i carri ci schiacciano come se fossimo formiche. Ricordo che sono caduto a terra riverso, ho visto sopra di me i cingoli di un carro che avanzava e ho pensato che la morte non era poi così brutta. Ma in quel momento un colpo di artiglieria lo ha centrato; la marcia del carro si era fermata ma con la mitragliatrice, dalla torretta, continuava a seminare morte». Portesine, a quel punto, si rialza, salta sul carro e con un bastone metallico colpisce la bocca da fuoco fino a zittirla. La sua guerra continuerà da prigioniero. «Alla liberazione, io che sono alto uno e 72, pesavo 32 chili: ero uno scheletro». Ai suoi nipoti nonno Lodovico non parlava della guerra: «Gli raccontavo storie di draghi e di streghe, inventate da me. Ma adesso, a 98 anni, è tempo di ricordare».
(Fonte: tratto dall'articolo)