Evoca scenari futuribili, ma la possibilità di indurre artificialmente uno stato simile al letargo è in realtà concreta.
E potrebbe avere importanti applicazioni in campo medico e spaziale. Lo spiega il neuroscienziato Matteo Cerri. Coricarsi, chiudere gli occhi, sperimentare il progressivo intorpidimento di membra e mente. E svegliarsi settimane, mesi o anni più tardi, più vivi e freschi di prima.
Gli scienziati la chiamano ibernazione, i profani lo conoscono come letargo. Le possibili applicazioni sono molteplici. In campo medico, anzitutto: l’ibernazione artificiale potrebbe essere utilizzata dai chirurghi durante gli interventi più complessi, per permettere ai diversi organi di sopravvivere anche in considerazioni di scarsa disponibilità di ossigeno. Oppure – ma è un’ipotesi al momento molto lontana – si potrebbe pensare di usare la tecnica nei pazienti in attesa di trapianti. Più realisticamente, lo studio dell’ibernazione potrà aiutare meglio a comprendere, tra le altre cose, i meccanismi alla base del morbo di Alzheimer; sembra possibile ipotizzare un rallentamento della malattia in soggetti ibernati. La stessa ipotesi si può formulare, tra l’altro, anche per la crescita tumorale. Anche nel campo della ricerca spaziale le applicazioni sono molto promettenti: la possibilità di indurre l’ibernazione negli astronauti consentirebbe di affrontare lunghi viaggi spaziali aggirando il problema delle scorte di cibo e della schermatura dai raggi cosmici nocivi, da cui l’ibernazione sembra costituire una sorta di protezione.
(Fonte: tratto dall'articolo)