Per la prima volta nella storia, nei Paesi occidentali, gli individui nati nella seconda metà del Novecento hanno ragionevoli probabilità di essere attivi, fisicamente e mentalmente, perlomeno sino a 85 anni. Oggi nel mondo quasi un miliardo di persone ha un’età pari o superiore ai 60 anni, superando globalmente giovani e bambini. Entro il 2030 questa quota raggiungerà il miliardo e mezzo.
L’invecchiamento della popolazione è destinato a diventare una delle trasformazioni sociali più significative del XXI secolo. Manca però una vera e consapevole riflessione antropologica, sociale e sanitaria su questo “invecchiamento di massa”, mentre prevale spesso un pregiudizio (il cosiddetto “ageismo”) che porta a disprezzare tutto ciò che è connesso alla vecchiaia.
Non ha senso pensare alla vecchiaia solo come anticamera della morte. È invece uno spazio dell’esistenza da riconsiderare, da fondare sui bisogni personali e non su quelli guidati o suggeriti dalla società. La medicina stessa fornisce oggi una lettura diversa di alcune caratteristiche della vecchiaia. Gli inevitabili cambiamenti fisici del corpo induce una fragilità che può essere bilanciata da un’attività fisica legata al movimento e, se possibile, alla pratica sportiva non stressante.
Anche le difficoltà psicologiche del vecchio possono essere superate dalla consapevolezza del bisogno che ciascuno ha dell’altro: riscoprendo il legame coniugale e filiale, consolidando gli affetti. La diminuzione della memoria dell’anziano, che viene spesso vissuta e intesa come apriporta di un decadimento fisiologico di tutte le funzioni mentali è interpretata oggi in maniera differente dalle neuroscienze.
La memoria è testimone del vissuto individuale delle persone e la metamorfosi che si opera nella vecchiaia modifica anche la percezione del tempo e del vissuto individuale. Il cervello non è più veloce come in gioventù perché è – come la memoria di un computer – molto ricco di dati, ma in compenso risulta molto più flessibile.
(Sintesi redatta da: Lupini Lucio)