I dati sui “luoghi del decesso” sono raramente diffusi e commentati. Sono, invece, molto studiati dalle organizzazioni sanitarie dei paesi occidentali che li considerano indicatori significativi della "qualità" del fine vita ma anche delle scelte di allocazione delle risorse pubbliche. Un quarto della spesa sostenuta dalle assicurazioni per la salute, in molti paesi, è assorbito dal 5% dei pazienti nell’ultimo anno di vita.  L’Istat ha diffuso da pochi giorni i dati del 2015 relativi all’ Italia: il 39,6% dei decessi è avvenuto in casa, il 42,6% in ospedale, il 5,7% in un hospice, il 9,2% in una residenza sanitaria assistenziale, il restante 2,8% per strada, nel luogo di lavoro o in carcere. Nel Mezzogiorno si muore molto più frequentemente in casa (58,6%) che nel Centro-Nord (30, 7%) con enormi differenze territoriali. In Campania, ad esempio, la quota dei decessi nella propria abitazione tocca il 69%, mentre in Friuli non supera il 24%. Nel comune di Enna sale al 75%, in quello di Cremona scende al 13%.  Anche fra Nord e Sud  vi è una grande eterogeneità; in Toscana, nel 2015, sono morti nella propria abitazione il 40% dei residenti (e nella provincia di Pistoia il 51%), più che in Sardegna. Se confrontiamo l’Italia col resto del mondo, i migliori dati disponibili su 13 paesi ci dicono che la quota di ultraottantenni deceduti in casa varia dal 9% al 63%. La più bassa si trova in Canada, la più alta in Messico. L’Italia si trova al secondo posto in questa graduatoria, subito dopo il Messico, e ha la percentuale di decessi in abitazione più alta di tutti gli altri paesi: oltre una volta e mezzo più della Francia e della Corea, più del doppio degli Stati Uniti e della Repubblica Ceca, il triplo dell’Inghilterra, il Galles, il Belgio, l’Olanda e la Nuova Zelanda, addirittura cinque volte più del Canada.