È difficile leggere i grandi libri. Il Qohelet (testo contenuto nella Bibbia ebraica – Tanakh - e cristiana) non è un laudatore della vecchiaia, e anche in questo è uno smascheratore di ideologie, di quelle che nel suo tempo parlavano troppo bene dei vecchi, dimenticandone i costi e i limiti.
È anti-ideologico e anti-consolatorio anche qui. Ma ci costringe a vederla, a porla al centro della vita di tutti. Soprattutto oggi, quando ne abbiamo un estremo e vitale bisogno. Il primo passo per edificare una nuova cultura della vecchiaia e della morte è ricominciare a riguardarle negli occhi; a farle uscire dall’eclisse nella quale sono entrate da decenni. Reimpareremo a vivere e a crescere se reimpareremo a morire e a invecchiare. Una cultura della vita ama la vecchiaia, perché ne è il suo culmine, non la sua negazione. Se disprezziamo la vecchiaia è tutta la vita che si appanna, e non leggiamo l’oggi che è trascorso come un giorno in più ma come un giorno in meno.
La vecchiaia è la grande sfida negata del nostro tempo. Viviamo, e vivremo, in un mondo sempre più popolato da persone vecchie, ma, paradossalmente, in nessuna epoca come la nostra la vecchiaia è svilita e la giovinezza (non i giovani) adorata e adulata. C’è allora un bisogno urgente e vitale di nuovi "carismi" che ci insegnino nuovamente a invecchiare e a morire, perché lo abbiamo dimenticato nel giro di una generazione. Forse uno dei frutti più preziosi delle grandi religioni era stato insegnarci a soffrire, invecchiare e morire. Un equilibrio tra vita e morte fatto di famiglia, comunità, religione, fede, tempo, spazio, memoria, a contatto con una natura che ci insegnava il ritmo della vita e della morte, che a un certo punto si è spezzato, soprattutto in occidente.
Il Qohelet, però ci ricorda: «Meglio la fine dell’inizio» (7,8). Non sempre riusciamo a terminare i viaggi che iniziamo, perché non siamo i padroni del nostro tempo e delle nostre forze. Per questo la prima parola da pronunciare quando un viaggio termina è: grazie.
(Fonte: tratto dall'articolo)