La speranza di vita è sì segno di civiltà e indicatore di sviluppo però è anche un fattore di rischio. Dice Fabio Roversi Monaco, ex rettore dell’Università di Bologna, ideatore del festival della Scienza medica che per inserire la longevità «nel cassetto delle risorse e non dei problemi, va cambiato un modo di pensare» troppo incline all’ageismo e alla rottamazione. L’idea è quindi di aggiornare le età della vita, vedendo anche i punti forti della vecchiaia, come ad esempio i “beni relazionali”. Fino ad oggi la soglia della vecchiaia è stata fissata per convenzione a 65 anni. Ma tra i gli ultrasessantacinquenni esistono vari profili, eterogenei per stato di salute e condizioni di vita. La soglia è stata fissata a metà del secolo scorso, quando la speranza di vita residua a 65 anni era di 13 anni. Negli ultimi cinquant’anni è cambiato tutto, 13 anni sono l’attesa di vita di un uomo di 73 anni e di una donna di 75 anni. Utilizzando lo stesso parametro, oggi in Italia 6,5 milioni di persone di età compresa fra 65 e 74 anni non verrebbero più considerati anziani. Questo non è solo un discorso lessicale, indica una trasformazione in corso nel mondo. Come risulta dai dossier dell’ONU e dal rapporto «An Aging World 2015» per la prima volta nella storia dell’umanità nel 2020 la percentuale degli ultrasessantacinquenni supererà quella dei bambini di età inferiore ai cinque anni. Nel 2050 gli ultrasessantacinquenni saranno più del doppio di quella dei bambini. In Italia, secondo paese dopo il Giappone per quanto riguarda la longevità, a causa della mancanza di politiche a favore della famiglia e della donna, la crisi della natalità non accenna a diminuire. L’anzianità va rimessa in gioco senza scontri generazionali, sfruttando i vantaggi e limitandone i disagi. Va cercato un nuovo equilibrio prendendo atto che c’è chi si avvia ad entrare nella quinta età, quella degli ultranovantenni.
(Sintesi redatta da: Flavia Balloni)