Un persistente stato di isolamento (in particolare nella mezza età) può raddoppiare il rischio di sviluppare una demenza o l’Alzheimer, rispetto a quello rilevabile tra coloro che sono vissuti sempre all’interno di una rete sociale solida.
Se ancora occorressero prove per quello che ormai è un assioma - "la donna e l’uomo sono esseri sociali, configurati per vivere in gruppo" - ecco dall’università di Boston (Stati Uniti) uno studio che sottolinea il costo della solitudine. In termini di salute, non di malessere.
I partecipanti allo studio sono stati sottoposti a diversi esami ogni quattro anni. E, a distanza di tre, sono stati esaminati due volte sotto il profilo della depressione. Tra le domande, quelle su quanto e quando la persona si fosse sentita sola. Da tutte queste risposte i ricercatori di Boston hanno delineato quattro sottogruppi: «nessuna solitudine» (quando i partecipanti non dichiaravano di averne patito), «solitudine passeggera» (se i partecipanti ne parlavano a un incontro e non nel successivo), «solitudine casuale» (se il partecipante ne parlava nella seconda seduta ma non nella prima) e «solitudine persistente» (quando la persona ne parlava in ambedue gli incontri).
Si è così potuto osservare che i membri dell’ultimo gruppo avevano un rischio più elevato di sviluppare una demenza rispetto a coloro che non si erano mai sentiti solitari. Ma, a sorpresa, più «protetti» di questi ultimi contro le demenze si sono rivelati, nel tempo, quanti avevano sofferto di solitudine passeggera. Come mai? Gli scienziati di Boston fanno appello alla resilienza: quelli che sono riusciti a combattere contro la solitudine, a superare questo ostacolo penoso nella loro vita, si presentano più tardi, nel tempo, «armati» contro i processi neurodegenerativi indotti dall’avanzare dell’età.
(Sintesi redatta da: Righi Enos)