Il bel libro di monsignor Vincenzo Paglia "L’età da inventare. La vecchiaia fra memoria ed eternità" (Piemme) rimescola le carte della vecchiaia, prendendo spunto dalla odierna evidenza della longevità come fenomeno di massa. La vecchiaia è una dimensione antropologica della vita collettiva, non più semplicemente un’appendice famigliare della marginalità sociale. Il paradosso messo a fuoco dal libro è come mai la condizione della vecchiaia, che proprio ora appare con tutta evidenza come un’età normale della vita, sempre più è consegnata alla clinica della sopravvivenza e sempre meno accolta nell’etica della convivenza?
Una società che si vuole giusta, ordinata, umana, si ostina a farsi rappresentare soltanto degli individui dinamici, produttivi competitivi (e maschi) dell’adulto di mezza età che rimane sempre giovane (anche se, nella realtà, i giovani fanno sempre più fatica a 'occupare' la posizione; ed essa si accorcia anche per gli adulti, che in un attimo diventano 'esuberi')? In altri termini, le età della vita, che proprio nei loro legami umani restituiscono intera, per tutti, l’umanità dell’umano vivere, vanno 'fuori asse' nella società odierna. E qui, 'fuori di asse' significa anche 'fuori di testa'.
Non deve sorprendere, dunque, l’invito di Vincenzo Paglia, a intraprendere il compito di 'inventare' la dimensione antropologica della vecchiaia, quale componente 'vitale' dell’intera comunità umana. Una questione di giustizia, di riconoscenza, di responsabilità, di amore. Ma anche un pungolo a porre rimedio ad una distorta comprensione della vita come semplice durata che si consuma. Incominciata dal niente, e destinata al niente.
Nella vita umana non ci sono esuberi: né rami secchi che è meglio tagliare di nostra iniziativa, per migliorare la produzione e il profitto. Possiamo e dobbiamo invece restituire agli anziani l’onore della testimonianza della dignità della vita. E molto gli anziani, restituiti a questo onore - quello di insostituibile rappresentanza dell’umano vissuto fino in fondo - possono portare alla lieta fiducia dei bambini e dei giovani che sono disposti a non abitare la terra invano. Perché, appunto, la cosa non finisce qui: e il bello deve venire.
(Fonte: tratto dall'articolo)