In caso di lungodegenze, come avviene nelle Rsa, non è facile identificare a quali prestazioni si riferisce il consenso informato. Altro problema è l’individuazione della persona che deve darlo in caso di incapacità dell’ammalato. Le Rsa (DPR 14/1/1997) sono destinate “a persone non autosufficienti, non curabili a casa, con patologie geriatriche, neurologiche e neuropsichiatriche stabilizzate” e devono offrire “un livello medio di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa” e “un livello alto di assistenza tutelare”. Nel contratto di ingresso che stipula il paziente all’ingresso è compreso anche il consenso per gli atti sanitari quotidiani previsti per una condizione di relativa stabilità clinica. Ma in seguito a complicanze, viene chiesto a priori il consenso su ciò che potrebbe essere necessario per gestirle (ad esempio l’uso del sondino nasogastrico o le “spondine” del letto). Questa procedura non è del tutto corretta, perché il consenso deve essere richiesto e acquisito solo quando occorrerà eseguire una prestazione per la quale è obbligatorio. In caso di ridotta o assente capacità dell’assistito, l’orientamento del Giudice Tutelare di Milano è quello di tenere in considerazione situazioni di serenità familiare. Di norma, se c’è un figlio che di solito segue il paziente viene nominato amministratore di sostegno ed è lui che deve dare il consenso alle cure. Ci sono però casi più complessi, che vengono sottoposti al Giudice, come ad esempio se i figli sono in contrasto tra loro o col medico in merito alle cure per il genitore; o la contrarietà dello stesso paziente ad accettare certe cure o procedure.
(Sintesi redatta da: Balloni Flavia)