Una questione generazionale esiste. Lo si vede nei dati su disoccupazione, Neet e mercato del lavoro. Ma ancora di più nell’esperienza, nelle vicende e nelle biografie della classe disagiata. Non c’è dubbio che questi percorsi di vita siano, anche nei casi fortunati, più difficili e frammentati di quelli dei coetanei di cinquant’anni fa. Ma quello delle opportunità economiche è solo un lato, pur fondamentale, della questione. Da nato negli anni Ottanta, vedo nella complessità dell’elaborazione di un’identità individuale e sociale, una parte importante della questione. Una stretta tra aspettative irrealizzabili, individualismo fragile e difficile ricerca di forme di identità e azione collettiva. Il tutto in un panorama segnato da crisi e trasformazioni che hanno sgretolato il vecchio mondo senza ancora dare forma a quello nuovo.
Da qui nascono le risposte insufficienti che di solito si danno alla “questione dei giovani”: vittimismo, denigrazione, esaltazione. O ancora: riserve indiane, quote, soluzioni individuali. Il “giovane” come figurina, come ruolo da interpretare. Forse, per non ricadere in questo circolo di stereotipi e soluzioni parziali, è necessario un cambio di sguardo.
La questione generazionale è in realtà solo una delle molte fratture di un modello in crisi. Diseguaglianze, povertà, divari territoriali, rischi ecologici, crisi di legittimazione dei sistemi politici: sono tutti segni della difficoltà di immaginare e costruire un’idea di sviluppo che sappia produrre una risposta alle molteplici e angoscianti questioni che abbiamo di fronte. Prendere sul serio la “questione generazionale” significa tutto tranne che parlare di giovani. Significa, piuttosto, chiedere che le questioni centrali per il futuro dell’intera società siano messe al centro dell’agenda pubblica e farlo anche attraverso un dialogo vero con le altre generazioni.
(Sintesi redatta da: Linda Russo)