È l'uomo dei «tinelli marron», il cantore della provincia e del suo immaginario, il cantautore dandy senza messaggio, ma anche il poeta che ha cantato meglio l'amore senza tremolii sentimentali. E questo al ritmo del jazz e della milonga, ma Paolo Conte, ottant'anni il 6 gennaio, è anche un avvocato, un disegnatore, un accanito enigmista, un lettore di thriller scandinavi che dimentica subito e, infine, un timido pieno di fascino. Voce rauca, sporca, e cultura piemontese-francofona, Conte, nato ad Asti nel 1937, ha scritto capolavori come Azzurro, Vieni via con me e Parigi e cantato di tutto senza mai prendersi troppo sul serio e mettersi in cattedra. I suoi personaggi sono spesso soli, innamorati infelici, inadeguati rispetto a donne che li dominano, ma anche portatori di una mascolinità antica, antimoderna, ma mai anacronistica.Paolo Conte è un artista che ama le donne come gli uomini di una volta, con rispetto e mistero. Amante di poeti come Gozzano, Caproni e Sbarbaro, nelle sue canzoni ammicca sempre a un certo esotismo con posti mai vissuti davvero come Timbuctù, Babalù e Zanzibar e lo spiega così: «Il mio esotismo è un malessere che i francesi chiamano ailleurs, il senso dell'altrove, tipico degli scrittori del Novecento, una forma di pudore che fa sì che certe storie della nostra vita reale vengano trasferite in un teatro più lontano, più immaginifico, più fantasmagorico, per attutire il senso della realtà e trasformare la povertà che può esserci nel contenuto di una storia raccontata in qualche cosa d'altro».
(Sintesi redatta da: Silvana Agostini)