E' rimasto sotto traccia durante tutto questo lungo e terribile anno e, in larga parte, si manifesta tuttora in forma carsica, coperto come è da distinguo e velate ipocrisie.
Ma il conflitto generazionale nonni-nipoti o nonni-figli è uno dei prodotti più avvelenati della pandemia, da un lato, e della sua gestione, dall'altro.
Basti solo riflettere su quello che ha scritto qualche giorno fa Walter Veltroni: "Ora un segnale, vacciniamo i giovani. Proteggere i ragazzi - almeno quelli tra i sedici e i diciotto anni che già oggi possono ricevere uno dei vaccini - e accelerare la sperimentazione già partita per estendere rapidamente l'età di possibile somministrazione, significa non solo consentire agli adolescenti di tornare a vivere ma arginare proprio tra coloro che hanno più possibilità e bisogno di mobilità e relazione, la diffusione del contagio".
La secca risposta del ministro della salute Roberto Speranza: "Le scelte etiche sono sempre rispettabili, ma 6 decessi su 10 riguardano persone con più di 80 anni, vaccinarle significa salvare loro la vita. E' la cosa più nobile che c'è".
Il punto è che il contrasto tra l'esigenza di salvare chi rischia di più per la salute e quella di garantire un futuro a chi studia o produce reddito rinvia a quel conflitto generazionale che esisteva anche prima che esplodesse la pandemia. E del resto è anche per questa contrapposizione pregressa che la pandemia, come spiegano dal Censis, ha fatto emergere nei giovani "un nuovo rancore sociale alimentato e forse legittimato da una inedita voglia di preferenza generazionale nell'accesso alle risorse e ai servizi pubblici legata alla visione degli over 65 come privilegiati e dissipatori di risorse pubbliche".
Eppure, un anziano su tre era e resta un aiuto fondamentale per i familiari, come emerge dai dati di Passi d'Argento dell'Istituto superiore di sanità.
(Sintesi redatta da: Nardinocchi Guido)