Una ricerca (“meta-analisi”) di recente pubblicata sulla rivista internazionale “Biomolecules” ha esaminato 56 studi realizzati tra il 1984 e il 2020 su un totale di 6000 soggetti, e li ha messi a confronto con un nuovo studio “di replica” che ha analizzato diversi marcatori di rame e varianti del gene ATP7B associato alla sua disfunzione. Da tempo, infatti, la ricerca supporta la tesi del rame “cattivo” (non-ceruloplasminico) quale fattore di rischio per la malattia di Alzheimer: si tratta di quel rame anche detto “libero” che – diversamente dal rame “buono” – non si lega ad una proteina, la ceruloplasmina, attraverso la quale viene trasportato nell’organismo per contribuire allo svolgimento di importanti funzioni vitali e metaboliche. Il rame “fuori” dal controllo delle proteine innesca così reazioni ossidanti danneggiando cellule e tessuti danno luogo alla malattia.
“Dalla meta-analisi condotta si evidenzia che nella malattia di Alzheimer la presenza di rame nel cervello diminuisce, mentre nel sangue aumenta. I due dati non sono in contraddizione tra loro: fanno parte di uno squilibrio sistemico tra rame “buono” (legato alle proteine) che diminuisce e rame “cattivo (non legato alle proteine) che aumenta”, spiega Rosanna Squitti, capofila dello studio. Questo squilibrio per la ricercatrice è lo specchio di un altro tipo di patologia legata al rame tossico, la malattia di Wilson, assunta come paradigma per lo studio sul ruolo del metallo nell’Alzheimer. L’eccesso di rame non-ceruloplasminico aumenta di 3 volte il rischio di ammalare e lo studio ‘di replica’ (condotto su circa 170 pazienti), associato ai 56 studi esaminati, dimostra che i portatori delle varianti-rischio del gene ATP7B sono più suscettibili ad ammalare di Alzheimer.
In linea di continuità con questo studio è stato pubblicato recentemente sul “Journal of Alzheimer Disease” una sorta di “manifesto” scientifico internazionale che sancisce il principio del nesso causale tra rame non-ceruloplasminico e Alzheimer e presenta le basi scientifiche per un sottotipo di malattia di Alzheimer caratterizzato appunto dalla presenza di questo squilibrio. Sulla base delle evidenze raccolte, in sostanza, si riassume il legame causale tra rame e malattia di Alzheimer, ancor più sottolineato dal fatto che la proteina precursore della beta-amiloide, considerata tra i fattori killer della malattia (quella che forma le placche nel cervello con Alzheimer) è una proteina “a rame”, cioè ha siti di legame specifici per questo metallo.
Lo studio offre nuovi scenari terapeutici. “Grazie al test del rame, effettuabile con un semplice prelievo del sangue – precisa Squitti -, è possibile identificare i soggetti che hanno valori di rame non-ceruloplasminico sopra la soglia di 1,6 µmol/L per intervenire su questo fattore di rischio modificabile, proponendo alle persone non ancora malate un cambiamento di stile di vita con una dieta a basso contenuto di rame, mentre per le persone già malate si potrebbero proporre dei trattamenti farmacologici già in commercio in grado di ridurre la presenza del rame tossico, analogamente a come si fa con la malattia di Wilson”.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)