Durante il lockdown la biblioteca di quartiere si trasforma in una cartoleria ‘segreta’, per fotocopiare le pagine dei compiti che le scuole inviano ai ragazzi a casa. Il piccolo alimentare sulla piazza funge da centro di raccolta e in un attimo propone la consegna pasti per gli anziani che non possono fare la spesa.
Il mondo della cooperazione sociale improvvisamente assume il ruolo di gestore sociale scoprendo competenze, protagonismo, conoscenze che si rivelano vincenti quando tutto è fermo. Ma scopre che ci sono anche altri mondi, non più così sommersi, che non hanno bisogno di macchinose regole di ingaggio, e che sono portati a intraprendere iniziative verso i più fragili e bisognosi.
Il professionista del sociale è spesso chiamato operatore, termine che rischia di evocare procedure, prassi, consuetudini che si ripetono come in una catena di montaggio. Invece la sua vera funzione è progettare il cambiamento, inventare nuove soluzioni, sperimentare idee per nuovi problemi. L’operatore sociale diventa così un imprenditore sociale, non tanto perché crea nuovi servizi, ma perché mette il suo operare al servizio di un obiettivo.
L’emergenza può spingere la cooperazione sociale a recuperare i principi fondamentali del suo esistere, alla luce di un welfare che chiama in causa tutta la comunità e di una società che allarga il significato della compassione in un movimento circolare, dove tutti i protagonisti agiscono sul territorio in un clima di reciprocità. Una reciprocità che non è confusione di ruoli, ma che, recuperando lo sguardo educativo, assegna al mondo delle cooperative sociali un’intenzionalità professionale al servizio di nuove forme di spontaneità.
La piazza di periferia di ogni città esprime i bisogni dei negozianti, dei cittadini e delle organizzazioni del Terzo Settore che la vivono.
Nessuno è escluso dall’occuparsene se al centro c’è il benessere collettivo.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)