L'approccio all’invecchiamento che distingue fra età percepita e anagrafica inizia negli anni ’70-80 e si rafforza in una serie di studi che vanno dagli anni ’90 in poi. Una ricerca dell’American Psychological Association (The influence of subjective aging on health and longevity: A meta-analysis of longitudinal data, 2014) ipotizza la possibilità di predire le condizioni di salute di un individuo (compreso il rischio di morte) conoscendone l’età soggettiva. Si ritiene oggi che, oltre alle condizioni di salute, l’età percepita possa influenzare anche la personalità degli individui. In età avanzate, si tende ad essere meno estroversi o inclini a fare nuove esperienze, ma se ci si percepisce più giovani rispetto alla propria età anagrafica, sembra si riducano anche i rischi di depressione o disturbi mentali (Chronological and subjective age differences in flourishing mental health and major depressive episode, 2011). La gran parte delle persone si sente di otto anni più giovane rispetto alla propria età. Secondo uno studio condotto da Yannick Stephan, ricercatore dell’Università di Montpellier, chi percepisce di avere tra gli 8 e i 13 anni in più rispetto a quelli reali, incorre in un rischio di morte superiore fra il 18 e il 25%. Brian Nosek e Nicole Lindner, dell’Università della Virginia, hanno analizzato la relazione tra età percepita e reale nell’arco della vita. E’ emerso che, fino a 25 anni, in media ci si sente più anziani. Dai 30 anni in su, il 70% del campione esaminato, si sente più giovane dell’età anagrafica.
(Sintesi redatta da: Carrino Antonella)