Un grande attore di teatro sa di poter uscire dal suo personaggio soltanto qualche metro oltre le quinte, qualche lungo secondo dopo il palcoscenico. Quando quel palcoscenico è la vita, non possiamo sempre scegliere come uscire, perché una vecchiaia ad ostacoli, una malattia e vari altri inveterati mostri del caso, possono disarcionarci dal lucido cavallo vitale.
Dunque cadiamo a terra, senza potere e volontà, trascinati dalla bestia verso l’uscita inevitabile, trascinati.
Lucio Anneo Seneca nelle sue “Lettere a Lucilio” fa alcune considerazioni in merito.
“C’è molta differenza tra il prolungare la vita o la morte. Ma se il corpo è ormai inetto alle sue funzioni, perché non dovremmo liberare da esso uno spirito affaticato? E forse bisogna farlo prima che vi sia obbligato, affinché non capiti che uno non possa più farlo. Non rinuncerò alla vecchiaia se mi conserva tutto intero; voglio dire intero nella parte migliore del mio essere. Ma se essa comincerà a farmi vacillare la mente e ad offuscarmela, se non mi lascerà la vita, ma solo un soffio di vita fisica , balzerò fuori dall’ edificio putrido e cadente. Non fuggirò la malattia con la morte, purché mi sia possibile guarire e lo spirito non ne resti menomato. Non volgerò le mani contro me stesso per paura del dolore: in tal caso, darsi la morte significa lasciarsi vincere. Ma se saprò di dover soffrire senza termine, me ne verrò fuori dalla vita non per le sofferenze in se stesse, ma perché vedrò in esse un ostacolo a tutto ciò che costituisce la ragione di vivere".
(Fonte: tratto dall'articolo)