Si parla di Silver Economy come della “somma delle attività economiche che rispondono ai bisogni delle persone con 50 o più anni di età, inclusi anche i prodotti e servizi di cui queste persone usufruiscono direttamente e l’ulteriore attività economica che questa spesa genera”. Alla luce dei numeri della componente anziana della Società, se la Silver Economy fosse uno Stato sovrano, la sua economia si posizionerebbe, per dimensioni, alle spalle solo di Stati Uniti e Cina. In totale, infatti, questi individui nel 2015 hanno consumato 3,7mila miliardi di euro in beni e servizi, contribuendo per 4,2mila miliardi di euro al PIL europeo e sostenendo 78 milioni di posti di lavoro in tutta l’Unione.
Potenzialmente infinite sono le declinazioni che tale business può assumere. Partiamo da una distinzione che separa la componente legata alla “terza età” da quella rientrante nella “seconda giovinezza”. In modo abbastanza intuitivo, queste definizioni distinguono gli anziani che per motivi fisici o psicologici sono più legati a una fruizione “passiva” di beni e servizi dedicati e che, quindi, rientrano nel ragionamento della non-autosufficienza, dell’assistenza domiciliare e del mondo sanitario, da quelli che invece godono di una salute psico-fisica tale per cui la “vecchiaia” è soprattutto l’opportunità di usufruire del tempo libero successivo al pensionamento. In particolare, è interessante analizzare questa seconda categoria, la cui produttività deve essere incoraggiata e sviluppata, non frustrata.
In sostanza, si tratta di concentrarsi su due aspetti che caratterizzano gli “anziani-giovani”: la possibilità di lavorare e la volontà di consumare. Riguardo il primo punto uno dei temi cruciali è la formazione dei profili senior, in vista di una rieducazione che li tenga aggiornati - ad esempio - con gli sviluppi tecnologici. Per questo, si stanno sviluppando sempre più le cosiddette “Università della Terza Età”, che mirano ad aumentare l’attrattività di questi profili senior proprio tramite la formazione, oltre ovviamente a generare un beneficio psico-fisico per l’anziano, che resta agganciato al mondo che lo circonda. Effettivamente, tra i dieci principi che rendono un’Università “age frendly”, ci sono il supporto alla volontà di iniziare una seconda carriera, l’apprendimento intergenerazionale l’implicarsi attivamente nella comunità. Inoltre, diversi studi dimostrano le grandi potenzialità delle start-up avviate da ultra 50enni, che hanno una competenza, un’esperienza e una rete di contatti frutto di una vita lavorativa passata che generano per la nascente attività una sopravvivenza maggiore della media delle start-up. Parlando invece dell’altro lato della medaglia della “seconda giovinezza”, ci si deve concentrare sugli anziani “consumatori”, ossia coloro che, dopo una vita spesa a lavorare, avendo maturato la tanto agognata pensione decidono di usufruire pienamente del tempo libero. Qui, ad esempio, ha un ruolo preponderante il cosiddetto Silver Tourism, in riferimento ad hotel e trasporti age-friendly. In conclusione, la tanto temuta sfida dell’invecchiamento sta diventando sempre più oggetto di una visione onnicomprensiva e strategica, che la consideri più alla stregua di un’opportunità mediante il coinvolgimento di innovazioni tecnologiche e sociali.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)