Una ricerca italiana della durata di 5 anni indica un nuovo standard di trattamento per l’infarto.
I ricercatori hanno preso in esame la forma più comune di infarto, quello in cui l’arteria coronarica non è del tutto ostruita, che in Italia colpisce ogni anno 80mila persone.
Fra queste, 52mila pazienti (il 65%) vanno incontro a stent coronarico, l’introduzione nel cuore di un tubicino a maglie espandibile per evitare l’ostruzione delle arterie.
“Abbiamo ritenuto necessario valutare le implicazioni cliniche dell’approccio farmacologico più comunemente utilizzato -spiega Giuseppe Tarantini, presidente del GISE -. Ovvero il cosiddetto pretrattamento che viene applicato a tutti i pazienti fin dal primo sospetto diagnostico di infarto. Lo abbiamo confrontato con una strategia selettiva, basata sulla somministrazione di un antiaggregante solo dopo la certezza della diagnosi ottenuta dalla coronarografia”.
E’ emerso come sia fondamentale ricercare un approccio su misura a ogni paziente. Una scelta migliore rispetto a un trattamento antiaggregante a prescindere.
Il suggerimento è quello di sottoporre i pazienti a una coronografia da accesso radiale (il polso) entro un massimo di 24 ore dall’episodio. Nonostante possa apparire un trattamento più invasivo, dà risultati migliori di una terapia antiaggregante somministrata a tutti i pazienti prima.
Tra i benefici, quello di evitare gli effetti collaterali di farmaci a chi non ne ha bisogno. Fra questi, quanti scoprono che i sintomi accusati non erano riferibili a un attacco cardiaco.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)