L’obsoleto concetto di sviluppo intende coprire la distanza che separa il fanciullo dal vecchio, dando a intendere che questo sia il normale percorso e che, in ultima analisi, non ce ne siano altri. Lo sviluppo è, invece, a proposito la peggiore spiegazione escogitata dalla cultura occidentale. In realtà, vecchi si è per un colpo fulmineo e inopinato del fato, o se si preferisce per decisione di Dio.
Ha quindi ragione il saggio Montaigne quando sostiene che una sola è l’età: avere cinque, dieci o vent’anni non vuol dire avere un’età, perché solo il vecchio ha un’età. Infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità non sono che sfumature. L’età è solo una, per cui il bambino e l’adulto sono astrazioni sociali, oggetti culturali manipolati e manipolabili. E cosa c’entra, in’ultima analisi, la filosofia con la vecchiaia? Non basta affermare che si è giunti a settant’anni per poter filosofare, perché si dovrebbe in realtà affermare che si è raggiunta quell’età per ottenere quella forma riflessa necessaria per la filosofia. Queste pagine sgalambriane sono torri ciclopiche erette su un deserto infinito, tanto incrollabili quanto lo è la loro indurente vecchiezza. Con inesorabilità argomentativa esse tracciano una metafisica della senilità, in cui la vecchiaia è il simbolo stesso dell’essenza del mondo. Superbe le pagine dedicate alla vita matrimoniale, nelle quali il valore della durata del legame vincerebbe su tutto, anche sull’amore autentico; magnifiche quelle centrate sul rapporto fra la vecchiaia e la delusione.
(Fonte: tratto dall'articolo)