Marion è una donna che apprezza la vita e la compagnia e ha trovato un nuovo piacere nel cantare con il coro locale degli anziani, diretto dalla giovane Elizabeth. Suo marito Arthur è un burbero e un solitario, disprezza il coro, non capisce suo figlio e non accetta altra compagnia se non quella di Marion. Ma la donna è gravemente malata e Arthur deve prepararsi ad affrontare la solitudine vera, quella che non ha scelto ma che non può evitare. Questa non è, dunque, la storia di Marion, ma quella di Arthur, costretto a imparare nel modo più doloroso che l'esistenza è fatta di rapporti umani e arroccarsi su una torre significa solo attraversare la vita, senza esperirla veramente. Eppure, se non fosse per l'interpretazione straordinariamente fragile e sincera di Vanessa Redgrave, che riempie il film, Una canzone per Marion sarebbe il contenitore vuoto che si ritrova ad essere quando l'attrice esce di scena. Non è colpa di Terrence Stamp, perfetto nel ruolo, né della regia, sobria a sufficienza, ma, per una volta, di un eccesso di realismo, che non alza mai il film da un livello di ordinarietà assoluta. Ciò non significa che non ci si commuova: al contrario, si rischia di cominciare a lacrimare troppo presto, ritrovandosi stanchi e asciutti al momento opportuno; significa, però, che, nel guardarsi negli occhi, il cinema e la realtà in questa occasione si sono limitati a riconoscersi, senza approfondimenti né rivelazioni di sorta, così che l'uno non ci dice nulla sull'altro che non sapessimo già. La figura della direttrice del coro, interpretata da Gemma Arterton, è l'emblema di ciò che accade al film nella sua interezza: colei che dovrebbe rappresentare la scintilla che accende il fuoco della vita in Arthur, resta un personaggio schiacciato dall'umidità del copione, che non riesce a far emergere la propria voce e, di conseguenza, nemmeno quella degli altri. Se cinema geriatrico dev'essere, che lo sia con la forza, l'esperienza e la vitalità che i suoi interpreti rivendicano, come nel recente film di Robélin o in Quartet di Hoffman (inutile, invece, scomodare la potenza di Haneke quando il confronto non si pone proprio). Ma il punto di vista del regista quarantenne, qui, è quello del nipote anziché del creativo, nonché di chi la fa troppo facile, pensando che basti un po' di british understatement per scampare il pericolo del patetico, perennemente in agguato.
(Fonte: www.mymovies.it)