Nel libro affiora e aleggia una forte poesia dell’esistenza condivisa, della vita attraversata nella continuità del felice rapporto coniugale, esplicitamente affermato nel libro precedente. Ma Giuseppe Sgarbi - per rubare una felice espressione a Giuseppe Bevilacqua - ha un rapporto coniugale con la realtà in sé, con la vita; un forte amore oggettivo, nient’affatto incrinato dalla consapevolezza delle difficoltà e dei malintesi del vivere. Anche per questo non gli èdifficile, scrive, convivere con l’idea della morte. Quello che conta, per lui, è vivere meglio, non di più - oppure, come mi replicò una vicina di casa quandole dicevo di non dare troppo prosciutto a Jackson, il mio cane, «Si ricordi, professore: vita larga, non lunga». La vecchiaia, scrive Sgarbi, è la stagione più libera dalla "rettorica" - ancora il termine definitivo di Michelstaedter per indicare la perversione del vivere - degli assilli, dei doveri, del dovere di avere successo. La vecchiaia, arriva e «prende da dentro, un poco alla volta. E quando fuori si cominciano a vedere i primi segni, dentro è già tutto fatto».
(Fonte: tratto dall'articolo)